Polvere di stelle by Simon Reynolds

autore:Simon Reynolds [Reynolds, Simon]
La lingua: ita
Format: epub
editore: minimum fax edizioni
pubblicato: 2017-09-03T22:00:00+00:00

I Roxy Music nel 1972. Da sinistra: Bryan Ferry, Brian Eno, Phil Manzanera, Andy Mackay. Accosciato: il bassista Graham Simpson con una fotografia di Paul Thompson, che non poteva essere presente. © Barrie Wentzell

Le altre canzoni di Roxy Music non sono sconnesse in orizzontale (l’estensione strutturale nel tempo), ma in verticale (la stratificazione di tessiture stridenti ed emozioni incongruenti). L’album si apre con «Remake/Remodel», un rock esplosivo e stralunato con gli affondi sintetizzati di Eno. Per «Ladytron» Ferry chiese a Eno dei suoni che evocassero un paesaggio lunare, mentre l’oboe di Mackay eseguiva quello che Ferry chiamava «Haunted Landscape Theme».130 Il suono di chitarra è talmente manipolato che sembra il tremolio di una medusa, e la voce di Ferry entra – parole sue – come «un cowboy con le nacchere». Segue «If There Is Something», e poi, a conclusione di uno dei lati A d’esordio più sbalorditivi della storia del rock, arriva «2HB», un omaggio alle star del cinema in forma di fumoso lento che si perde in una vaporosa sequenza di sax trattato con il tape delay. Sovrapposti ma sfasati, questi strati di segnali ripetuti creano un effetto a metà strada tra la rivelazione e il disorientamento, come l’alba su un pianeta con tre soli diversi. «È un effetto di Eno su un pezzo di Ferry attraverso il sassofono di Mackay, una di quelle collaborazioni che non sarebbero state possibili in qualsiasi altra situazione», ricorda Mackay.

Questi esperimenti postpsichedelici/protoambient vennero approfonditi in For Your Pleasure del 1973, uno degli album più grandi di tutti i tempi. «In Every Dream Home a Heartache» procede in uno stato di trance, a lenti passi verso una scena dell’orrore: la paurosa tensione esplode infine in un fragore maestoso e massimalista, con le gassose volute di chitarra («Fu l’occasione di dare sfogo alla mia psichedelia interiore», ride Manzanera), la batteria di Thompson sottoposta a phaser e panning stereofonico e il falso finale stile 1967, la dissolvenza e il ritorno di un’ultima vampata. «The Bogus Man», autentica composizione di gruppo con buona pace dei crediti, è un groove ansimante, malfermo e ipnotico, a metà fra lo Sly di There’s a Riot Goin’ On e i Can di Tago Mago.

Infine, la title track, qualcosa di mai sentito nella storia del rock, prima e dopo di allora: un rock privato delle sue radici americane e trapiantato nell’Europa del Settimo sigillo di Bergman, di Lotte Lenya e dell’Anno scorso a Marienbad di Resnais. Il brano è costruito su un ritmo spezzato che sembra vagare attorno all’orlo di un cratere. «Cerco di inventarmi i miei lick», spiegava Thompson. «Per esempio, quando fanno le rullate, i batteristi vanno quasi sempre in senso orario, come se fosse il modo più naturale. Ecco perché a volte io provo a farle in senso antiorario, e il risultato è molto interessante». Unito a un nebuloso pianoforte velato di riverbero, questo non-ritmo a singhiozzo evoca una scena gotica di un’eleganza macabra: a me viene in mente il giardino ghiacciato di una villa bavarese, gli animali immobili in posizioni bizzarre, araldici e spettrali.

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